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Interviste ai prof - Prof.ssa Magoga

Aggiornamento: 18 gen 2020

Qualche tempo fa, tutta intimidita, ho avanzato una proposta parecchio bizzarra alla professoressa Magoga: un'intervista riguardo alla scuola, ai suoi piccoli e grandi problemi, e al ruolo di chi l'ambiente scolastico lo respira, spesso, per una vita intera: gli insegnanti.

Il progetto, premiato con un entusiasmo inaspettato, ha preso vita un pomeriggio di dicembre, con me che fremevo dall'ansia e la professoressa, forse più emozionata di me, felice di poter dedicare finalmente un po' del suo tempo a riflettere sull'operato che svolge ogni giorno. Questo è quello che, in una breve, ma preziosa oretta, siamo riuscite a dirci:


Cosa significa fare l'insegnante, per lei?


Di certo è una professione che vivo con senso di responsabilità e che si traduce in un duplice impegno: il mio dovere, infatti, non è solo quello di garantire che gli studenti si impadroniscano dei contenuti e degli strumenti culturali, ma anche far sì che quanto acquisito non finisca riposto e dimenticato sugli scaffali in alto, ma venga invece “cucinato, insaporito, gustato e digerito” da ciascuno: sia, in breve, interpretato e vissuto attraverso le capacità personali, di cui ognuno dispone.


Qual è, secondo lei, il male peggiore che la scuola vive in questo periodo?


Credo che, ad oggi, vi siano pedagogie inefficaci a causa di antropologie povere, che trascurano aspetti importanti del soggetto, temi su cui dovremmo soffermarci per un tempo sicuramente superiore rispetto a quello che abbiamo a disposizione.


Faccio solo un esempio: vi è un aforisma di Montaigne, filosofo del ‘500, che dice: "E’ meglio una testa ben fatta, che una testa ben piena". Questa frase, che riassume alla perfezione la critica al sapere nozionistico, è sicuramente vera, ma non possiamo ignorare che lo studente non è solo "testa", la sua vita, infatti, come quella di tutti, non avanza solo a colpi di ragione e volontà, ma per passione e attrazione, aspetti che nascono dalla dimensione del sentire, della corporeità, prendono vita dal valorizzare la dimensione estetica.


La scuola, quindi, oltre a fornire strumenti conoscitivi, deve offrire occasioni vitali dove poter crescere in modo armonico. Il tutto si potrebbe spiegare con la metafora dell'ago e del filo: il filo rappresenta la dimensione cognitiva, l’ago quella emozionale, che è il canale che permette ai contenuti (filo) di passare dando loro significato e valore. Come per cucire non possiamo separare filo ed ago, a scuola non è possibile considerare solo la dimensione cognitiva ignorando del tutto l'altro aspetto.


Quindi è questo che cambierebbe della scuola, offrirebbe più occasioni vitali.


Esattamente. Per farlo, naturalmente, è necessario diminuire il numero di alunni per classe e magari anche sgravare noi docenti dalle tante funzioni burocratiche che ci vincolano, portando via molto del nostro tempo e del nostro entusiasmo.


Abbiamo parlato di studenti. Lei come vive la relazione con noi?


Il nostro è un lavoro intrinsecamente relazionale che si deve nutrire di scambi, di incontri, sia con voi studenti che con i colleghi. È un vero e proprio lavoro di squadra: le varie forme di competitività e di corsa individualistica non conducono ad alcuna meta.


Qual è il peggior difetto di noi studenti, secondo lei?


Direi la demotivazione che spesso segue gli insuccessi, di fronte ai quali crollate e decidete di gettare la spugna. Dobbiamo ricordare che sperimentare un insuccesso significa confrontarsi con i propri limiti, la parola "limite" in latino può essere tradotta in due modi:


Limes, ossia "barriera, ciò che delimita, ciò che chiude", e in questo senso il limite è ciò che mi dà misura, che mi riporta a contatto con la realtà.


E limen, ossia "soglia, ciò che apre" dunque un qualcosa che mi sprona, mi stimola ad aprirmi, a dare sempre di più. L’augurio è che il fallimento, il brutto voto, diventi un'occasione per tirar fuori le energie necessarie a migliorarsi. Sperimentare l'insuccesso, d'altronde, è una esperienza umana: sia per voi studenti, che per noi insegnanti.


Abbiamo parlato di voti: c'è addirittura chi vorrebbe abolirli. Lei che ne pensa a riguardo?


Il problema è che si ha una percezione sbagliata di ciò che essi rappresentano. Il voto, infatti, è il mezzo, non il fine dell’azione educativa: questo significa che esso serve semplicemente a sondare la vostra preparazione e che non deve in alcun modo identificarvi, perché non potete essere solo un numero agli occhi delle persone. I voti funzionano come rinforzo, mi aiutano a raggiungere determinati traguardi, a prendere misura, mi restituiscono qualcosa di cui ho bisogno, relativamente al livello raggiunto dalla mia preparazione dunque no, non li abolirei. Solo, dobbiamo stare attenti a non assolutizzarli.


Alla luce di queste considerazioni, cosa ritiene renda un professore davvero un buon professore?


Beh un insegnante deve innanzitutto essere competente relativamente al proprio ambito disciplinare, deve lavorare con passione e così fare breccia nell'animo di voi studenti. Penso che un buon professore debba offrire senso e significato, cioè una direzione, al percorso che si sta facendo insieme e dare valore ai contenuti e alle esperienze che si offrono.

Inoltre direi che un buon professore è colui che riesce a creare le condizioni per un reciproco riconoscimento: voi non siete solo studenti, siete persone, noi non siamo solo insegnanti, siamo persone.


Abbiamo parlato di moltissime cose, è stato un piacere intervistarla.


È stato un piacere anche per me, ti ringrazio! Ora, però, toglimi una curiosità: perché hai deciso di fare questa intervista?


In classe ci chiede sempre pareri su cosa pensiamo dell'educazione, dei filosofi e pedagogisti che studiamo. Ho pensato fosse interessante, per una volta, considerare anche il vostro punto di vista. D'altronde, chi non si è mai chiesto cosa frulli nella testa di un prof.?


-a cura di Silvia Blonda, 3BU

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